Josè Ortega
La madre era proprietaria di un giornale di Madrid, El Imparcial, ed il padre, Jose Ortega Munilla, era giornalista e direttore di questo stesso giornale. Il clima giornalistico ebbe grande influenza sulla sua vita, tanto è vero che egli stesso fu conosciuto in larga parte per i suoi articoli. Convinto che al popolo spagnolo si dovesse parlare in maniera semplice e diretta, trasmise il suo pensiero filosofico e le sue idee in materia di politica anche grazie ai suoi articoli sul giornale.
Ortega studiò nel collegio dei gesuiti di Malaga, a partire dal 1891. Si laureò presso la facoltà di lettere e filosofia di Madrid nel 1902 con la tesi Los terrores del año mil. Crítica de una legenda, una tesi di sole cinquantotto pagine.
In seguito si recò in Germania dove continuò gli studi dal 1905 al 1907 a Lipsia, Norimberga, Colonia, Berlino e soprattutto a Marburg. Li fu influenzato dal neokantismo di Hermann Cohen e Paul Natorp.
Insegnò metafisica nell’università di Madrid dal 1910 al 1936 e fu fondatore, nel 1923, della rivista “Revista de Occidente”. Nel 1948 creò l’ Institudo de Humanidades, assieme al suo discepolo Julián Marias.
Fu esponente dell’esistenzialismo e del prospettivismo e, in secondo momento, del cosiddetto raziovitalismo.
L’opera più famosa di Ortega è "La ribellione delle masse", scritta nel 1930.
Il maggior merito di Ortega è aver reso la filosofia accessibile a tutti, usando un linguaggio il più possibile semplice per meglio diffonderne il contenuto, esprimendo le sue idee in articoli, conferenze, chiacchierate con la gente più che con libri. Era il modo migliore per avvicinarsi al popolo spagnolo che mostrava un grande disinteresse per la filosofia. Il suo scopo non venne però compreso tanto che alcuni lo accusarono di non essere un vero filosofo, perché capace di trattare ogni questione, ma scientificamente nessuna. Fu difeso con forza dal suo discepolo Julián Marías (padre dello scrittore Javier Marías).
Famosa è la sua affermazione “Yo soy yo y mi circustancia, y si no la salvo a ella no me salvo yo” (io sono io e la mia circostanza e se non salvo questa non salvo neppure me) che si trova nelle Meditaciones del Quijote. Con tale asserzione intende sottolineare l’unicità della vita di ogni essere umano, non trasferibile (nessuno può vivere al posto mio) e determinata da circostanze spaziale e temporali: nasco in un determinato tempo e luogo e, in conseguenza di ciò, la mia vita si presenta con determinate caratteristiche. Le circostanze sono molteplici e diverse da un uomo all’altro, il che rende la sua vita unica. La funzione delle circostanze è dunque quella di determinare ogni singolo individuo. La loro eliminazione comporta l’annullamento di noi stessi.
Ortega è sostenitore del prospettivismo storico, ossia di una concezione della storia in base alla quale essa può essere compresa analizzandola nel suo corso a partire da diverse prospettive. L’uomo stesso, con la sua individualità, ha una visione peculiare della realtà, che appartiene soltanto a lui. La somma totale di tutte le prospettive della totalità degli uomini fornirebbe la visione reale e veritiera del mondo. In sostanza, la varietà di prospettive permette una visione più completa e obiettiva della realtà. Una delle conseguenze più importanti del prospettivismo è ritenere ogni posizione degna di considerazione nonostante sia contraria alla nostra. Ogni individuo è dunque dotato di valore per la sua originale e unica posizione, che ne garantisce l’identificazione, e il suo essere in disaccordo con noi deve essere considerato di fondamentale importanza per accrescere la nostra visuale. Per evitare scontri fra posizioni differenti è fondamentale la tolleranza.
L’uomo è erede di un passato e di credenze che da questo passato gli giungono. Arriva nel mondo con una serie di informazioni e conquiste già date e già realizzate. È importante che conosca la sua storia per evitare di ripetere gli errori che già sono stati commessi e possegga dunque “coscienza storica”. L’uomo è continuo mutamento e nel progredire deve cercare di far crescere la sua eredità storica piuttosto che perderne i frutti.
L’uomo comincia ad essere tale quando sente la necessità di sapere. La ricerca della verità è qualcosa di ineluttabile nell’essere umano, che sempre cerca il senso della realtà che lo circonda.
La verità va conquistata senza pretendere di ottenerla rifacendosi ad un’unica prospettiva. La molteplicità di prospettive, come abbiamo già visto parlando del prospettivismo orteghiano, dà una visione più veritiera della realtà. Esiste però anche una verità storica, che cambia con il mutare del tempo e delle circostanze: la verità non è mai data una volta per tutte e va sempre cercata in uno sforzo continuo e instancabile.
Negli anni ’20 in Spagna vi è
la dittatura di Primo de Rivera che viene definita
“dictablanda” in quanto non ha le caratteristiche repressive
del regime fascista. Ortega, in questo periodo di relativa
mancanza di democrazia, scrive “La ribellione delle masse”:
la storia, il progresso, si attuano ad opera delle
minoranze. Se vi deve essere un rinnovamento, dunque, questo
deve avvenire ad opera dei migliori, che vanno, comunque,
reclutati in maniera liberal-democratica. Ortega teme che le
masse chiedano tutto allo Stato e che esso conceda loro
tutto in cambio di cieca obbedienza: ciò causerebbe una
mancata emancipazione delle masse. Fa incontrare il
liberalismo e il socialismo: il liberalismo deve perseguire
una totale emancipazione dell’individuo (a qualunque ceto
esso appartenga), il socialismo deve abbandonare la
statolatria e finire di perseguire un egualitarismo troppo
estremo. L’avvento delle masse al pieno potere sociale è un
fatto di cui bisogna prendere atto: provoca nella società
europea una crisi perché le masse non possono guidare la
società; ciò non toglie che esse possano scegliere i propri
rappresentanti. Il problema è l’iperdemocrazia: cioè
l’emancipazione priva di assunzione di responsabilità. Si
verifica in questo periodo il fenomeno dell’agglomerazione:
città piene, treni pieni, alberghi pieni, le masse fanno
propri i luoghi pubblici; ciò non è un male, è indice di
civiltà, “sebbene il fenomeno sia logico, naturale, non può
negarsi che prima non si verificava”. Tutto ciò non è dovuto
a un boom demografico ma alla massificazione della società
(questi individui preesistevano ma non formavano ancora una
massa). In tutto questo vi è un elemento negativo: i
migliori (in base alle loro qualità) vengono assorbiti dalla
massa, “gli attori sono assorbiti dal coro”. Quando Ortega
parla di massa non intende la classe operaia, pochè “massa è
l’uomo medio”. La massa non è solo un fatto quantitativo, ma
anche qualitativo che palesa una media tendente verso il
basso. Il componente della massa non si sente tale e,
quindi, si sente tutto sommato a suo agio: non realizza la
condizione di conformismo in cui è sprofondato. In questo
scenario deve comunque venir fuori una minoranza eletta: ne
fa parte l’uomo che continuamente si sforza per uscire dal
coro e diventare attore protagonista, qualunque siano il suo
ceto e il suo censo. Ortega non rifiuta la visione
liberal-democratica, teme l’iperdemocrazia: era meglio l’800
liberale europeo, caratterizzato dal dialogo e dal
confronto. L’iperdemocrazia si manifesta nella massa che
vuole governare con i luoghi comuni, la vita dell’uomo-massa
è priva della volontà di progredire e di partecipare ad un
processo di evoluzione della società. La massa non capisce
che se ora si può godere di certi vantaggi ciò è dovuto al
progresso: ma per progredire ci vogliono sforzi, ci vuole
l’opera di singoli individui, usciti dal coro, diventati
attori protagonisti. Le masse, invece, considerano il
progresso come qualcosa di naturale, che non è costato
alcuno sforzo. Non “ringraziano” chi ha reso possibile
questo sforzo: il liberalismo (inteso come individualismo,
sforzo individuale degli elementi migliori). La massa crede
che il progresso sia qualcosa di irreversibile: questo
progresso va in realtà mantenuto; la politica richiede
mediazione e ragionamento, mentre l’uomo-massa concepisce la
politica solo come azione diretta. Non rispetta, cioè, chi
discute, non è disposto a mettere in gioco le proprie idee.
La novità politica, purtroppo, in Europa consiste nel venir
meno delle discussioni: questo è il regime che piace
all’uomo-massa. A tutto questo si contrappone il
liberalismo: lo scopo della politica dovrebbe essere quello
di rendere possibile la convivenza, attraverso la
discussione; bisogna avere il diritto di dissentire. Prima
vengono gli individui, poi la collettività. Il liberalismo è
“il più nobile appello che sia risuonato nel mondo” in
quanto convive con l’avversario, accetta l’avversario e gli
da cittadinanza politica; è un bene, infatti, che esista
un’opposizione. La massa, invece, odia a morte ciò che gli è
estraneo: non da cittadinanza politica a chi ha opinioni
dissenzienti. Noi viviamo nell’epoca del “signorino
soddisfatto”: pensa a tutto lo Stato, lui non deve badare a
nulla, si deve limitare ad essere conformista. Tale
individuo è un “bambino viziato”: da per scontati benessere
e progresso, crede che la vita non necessiti di competizione
e che non sia necessario che i migliori debbano emergere. Il
progresso non è una cosa facile, la massificazione, invece,
induce a ritenerlo. Lo Stato è il maggior pericolo per chi
vuole uscire dal coro: non è più un mezzo (come nella
concezione liberale) ma è diventato un fine. L’uomo-massa
riceve dallo Stato tutto e ciò lo induce all’omologazione e
alla mancanza di attivismo; rischia di dimenticare che lo
Stato non può risolvere tutti i problemi, l’individuo-massa
sbaglia perché “delega in bianco”. Lo Stato assorbe anche la
società civile e l’individuo non ha più uno spazio dove far
crescere e dimostrare le proprie capacità. Massa e Stato si
identificano a vicenda: un esempio pratico è l’Italia di
Mussolini. Ortega non è nemico dello Stato (tanto più che è
stato costruito dai liberali), crede però che vada
articolato con continenza. “Attraverso e per mezzo dello
Stato, macchina anonima, le masse governano autonomamente”:
nessuno è responsabile e si perde l’individualità.